THAT’S WHAT I AM

Quel che ero ora più non sono, ora più non riconosco.
Mi muovo in condizioni che altri creano e delineano per me.
Cedo e cerco di adattarmi rinunciando allo sforzo di obiettare, disconoscendo e rifiutando me stessa; ma non così facile, poi, da accettare.
Allora chiudo gli occhi quando più mi sento soffocare e mi immagino non lontano, ma lontano da questa me che mal accetto, a tratti odio. Lontano, in un posto che sia pronto ad accogliermi a braccia aperte, senza alcun indagine, senza alcuna pretesa.
Spasmodica ricerca lenta di una netta separazione nel mondo degli altri per tentar di ritrovar linee di una sagoma svanita nella nebbia di giorni lasciati andare al nulla; amara concretezza di tempo già trascorso ma non ancora sufficientemente per sempre.
Immagine di confronto con strumento a corde che suono più non emette; intriso, però di musica da strumento scordato scritta di getto nel silenzio di lacrime ed angosce o di gioia apparente, di frivolezze passeggere e attimi di felicità interiore mai confessata ad altri ma solo a se stesso.
Musica leggera no, ma leggiadra nelle intenzioni, fatta di note non più libere di viaggiare sulle proprie onde ma imprigionate, chiuse in spartito che fa da muro a stanze protettive create con salda prepotenza e pertanto non più facilmente scalfibile.
Abituarsi così a vivere ovattati da suoni lontani, da ben conosciuti silenzi, dal frastuono di una giornata di sole, dal canto ritmico di gocce lasciate da scrosci di pioggia battente.
Suoni che si attaccano alla pelle, gravosi, impegnativi da portar; l’animo tuo mal si concilia, a stento e a tratti respinge, ma poi lentamente ti spegne.




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